La misteriosa morte di Giuseppe Vannicola

da La Stampa di Torino, 11 Agosto 1916

La misteriosa morte

di Giuseppe Vannicola

Giornalista e violinista

Trascrizione di Silvano Tognacci


Napoli, 10, notte Quest’oggi un telegramma da Capri firmato da quel sindaco, annuncia la morte di Giuseppe Vannicola.

Giuseppe Vannicola, fiorentino, dopo avere collaborato a parecchi giornali romani era stato, in questi ultimi tempi, uno dei piu attivi collaboratori del Mattino. Egli era entrato subito nella simpatia dei lettori per i suoi fantasiosi ed originalissimi articoli di arte e di coloro, che denotavano sempre un ingegno artistico ed una cultura geniale. La sua esistenza randagia si svolse sempre nell’incertezza del lavoro e dei mezzi materiali che non facevano tenere in giusto conto l’intelligenza acuta di questo mirabile artista, che fu più volte sul punto di raggiungere la celebrità.

Giuseppe Vannicola, pubblicista nato, divenne presto un violinista di prim’ordine ed in qualche tournèe all’estero, come concertista, ottenne grande successo. Si ricorda anche it celebre quadro di Lionello Balestrieri “Beethoven”, la figura centrale del quadro è proprio quella di Giuseppe Vannicola, mentre segue la Suonata di Kreutzer. Appartenne al gruppo dei pragmatisti romani e fu uno dei più assidui della Leonardo, la celebre rivista letteraria che accolse i più illustri scrittori italiani di avanguardia. Poi riprese le sue peregrinazioni in Italia. Abitò dappertutto, da boemo e da vagabondo, vivendo di cose d’arte, con gusto e con felice originalità di visione, malato e poverissimo — non capita a Napoli fraternamente accolto dagli amici e dai colleghi. La morte di Vannicola è naturale?

Chissà! Un biglietto, appena cominciato ed interrotto da lui spedito giorni fa a Paolo Scarfoglio, contiene queste righe: ” Tu mi hai dato il viatico; adesso confortami della cresima …”. E più nulla! La sua fine lascia un triste dubbio.


Vannicola e la Nino…

Non è stato Fellini ad inventare lo spogliarello improvvisato in un luogo pubblico come apparso nel film ” La dolce vita” e, a suo dire, ispirato allo spogliarello della Nana al Rugantino … ma la Nino che si accompagnava a Giuseppe Vannicola a Firenze nei primi anni del 1900. (Silvano Tognacci)

Da un velo

GIUSEPPE VANNICOLA

DA UN VELO

 

«usque ad divisionem animae et spiritus».

   S.PAOLO.

Lettore,

 io ti porgo la lampada, e tu accendila; io sono il poeta e tu sii il poeta del poeta.

Il velo della grande Iddia è nella pausa bianca che precede e segue il ritmo del segno scritto nella pausa che è tra il melodiare della mia penna e l’ascoltare vago del tuo sguardo.

 

Io sogno di un giovine prete anglicano, in un piccolo presbiterio semplice di stile come il cantare di un fanciullo.

Io lo sogno nella vita come in un tempio.

In fondo al suo sguardo limpido solo vivrebbero le cose immutabili; le altre vi passerebbero quasi vane apparenze in uno specchio profondo.

Oltre le forme visibili, mutevoli, imperfette, egli vedrebbe l’invisibile, il modello stabile e perfetto del mondo e degli esseri.

Le parole misteriose della Scrittura, aprendosi misteriosamente alla sua meditazione, mostrerebbero sempre nuovi orizzonti al silenzio della sua giovinezza austera, appartata come in un claustro spirituale, su cui l’interno cielo dell’anima svolgerebbe un muto ritmo infinito, simile al palpito delle stelle sulla solenne maestà delle montagne.

Con lui la sua sposa, dolce e triste, atteggiata di grazia e di malinconia, di quella malinconia sottile di anti- declinazione che è già nell’alba e non è più nel tramonto, che è già nella gemma e non è più nel fiore.

(Malinconia di enigmi non mai tentati, di musiche non mai ascoltate, di profumi non mai respirati, di navi non mai scese all’amplesso del mare!…. Malinconia, per la quale il vicino è già come il lontano, il desiderio è già come il rammarico!).

Le sue parole avrebbero quello strano languore che hanno i petali quando scendono vagolando dai rami appena commossi; e parrebbero estranee e remote, quasi che nel parlare ella s’allontanasse da sè medesima, leggera come un fantasma, per internarsi, nascondersi in un suo particolare mondo inanimato.

E il suo tacere sarebbe come il morire d’un profumo in una fiamma.

Ogni suo semplice atto sembrerebbe il segno rivelatore di una persona recondita in un silenzio e in una immobilità sopranaturali.

Tutte le musiche della sua mite esistenza parrebbero sottomesse ad un ritmo ineffabilmente grave e soave, un po’ vago, impreciso, indefinito, come il persistere d’un sogno dopo il risveglio.

Solo i suoi occhi fiammeggerebbero talvolta, per po- chi attimi, di una strana impreveduta luce, come il lucore d’una lama nel buio, quasi che tutta l’anima le ardesse allora nelle pupille.

Poi si spegnerebbero in un pallore notturno, riassorbi- ti dallo sguardo grigio, triste, scorrente nell’ombra silenziosa del volto, come un’acqua lenta nelle erbe.

E nel loro coniugio sarebbe il divieto, la constrizione eroica e dolorosa alla rinuncia, onde meglio aderire in un’ardua bellezza spirituale, e meglio esalare l’anima dal braciere della carne, come due grani d’incenso che vaporano in preghiera aromatica.

Così, essi vivrebbero nell’amore, non gustando dell’amore se non la essenza superfisica, innaturale, accesi, per le alte contemplazioni delle cose del cielo, nel desiderio di correrne la via, e ritrovarsi là dove sarebbero stati congiunti per sempre, in un’anima sola.

E di notte, riposando l’uno presso l’altro nel loro talamo immacolato, poi che il silenzio del sonno avesse spento sulle loro labbra l’ultimo murmure della Preghiera e diffuso sui loro volti l’ombra lieve e solenne dell’Amen, una profonda pace ideale s’adunerebbe intorno all’origliere dei dormienti, come la stagnante palude aduna i suoi circoli concentrici intorno ai nelumbi e alle ninfee.

E l’allacciamento semplice e casto delle mani implicherebbe ai loro sogni, quasi per spontanea virtù di coesione, uno stesso ritmo di serenità infinita.

Lo sposo le direbbe le melodie della mistica alienazione; le verserebbe nel cuore la voluttà obliviosa dell’ascesi; l’esaltazione emotiva e ascensionale, per le vie del sogno, nelle serene regioni dell’infinito; l’attrazione di Dio; la brama di Dio; i rapimenti, gli struggi- menti in Dio.

Nella sua voce passerebbe la parola e la fiamma dei grandi contemplanti che più intensa e amorosa vissero l’iperbole interna; la parola e la fiamma di Plotino, di Emerson, di Novalis, di Eckehart, di Ruysbroeck, delle più magnifiche e più profonde anime, ansietate d’amore, eloquenti di passione, anelanti di continuo in una vastità senza limite, in un’altezza senza fine.

La condurrebbe così per tutte le più irte vette del trascendentale; le aumenterebbe sempre più il conoscimento con l’aumento dell’inesplicabile; e dalla conscienza la spingerebbe verso la inconscienza, dalla sensazione verso la intuizione, lungo una strada infinibile, in una atmosfera di una luminosità allucinante, satura d’innumerevoli essenze.

Ed ella lo seguirebbe estatica e docile, come la nota segue la nota e l’onda l’onda, abbandonando la sua mistica vita sopra tutte le ali dei più sottili rapimenti.

Egli sarebbe lo spirito, ed ella l’anima; egli la luce, ed ella il calore; egli la musica, ed ella la canzone.

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Un anniversario da ricordare…

Picture_of_Papini_in_1913

Giovanni Papini, in una foto del 1913

Oggi è il 10 agosto, ricordiamo Giuseppe Vannicola nel giorno della sua scomparsa da questo mondo con una introduzione di Giovanni Papini, uno dei pochi amici che gli volle bene, fino all’ultimo. E anche dopo. Una “non dedica”, perché Gianfalco non era un uomo da fare dediche; a nessuno…

 Capri, 10 Agosto 2018

La redazione

 

LA VITA DI NESSUNO

di Giovanni Papini

Vallecchi, Firenze, edizione 1912-1918

Caro Vannicola,

non ho nessuna voglia di dedicarti questo librino niente affatto «eccezionale ». Non ho mai dedicato i miei libri a nessuno e non voglio de­dicare a nessuno i libri prossimi e futuri che usciranno dal capo mio. Tu sai benissimo che l’educazione non è il mio forte e che la garbatezza non è precisamente la mia cavalla di battaglia. Tu lo sai magnificamente. Se tu non lo sapessi tutti te lo direbbero. Io odio i capolavori di Giovanni della Casa quanto — se non più — le mie prigioni di quel Silvio che infradiciò i nostro occhi di bambinetti elementari.

Io non voglio dar nulla a nessuno. Non voglio consacrare o donare qualunque sia cosa a qualunque sia uomo. Sono l’animale non religioso per eccellenza ; sono l’ateo di cento teologie — della teologia mon­dana, socialista, umanitaria, aristocratica ; della teologia degli uomini seri, onesti, laboriosi, patriotti, civici e disciplinati e di ogni catechismo.

Con tali connotati tu capisci che non son uomo da far dediche a nessuno.

E non voglio farne. E non farò neppur questa.

Ma c’ è un ma. C è che tu hai dedicato a me un librino simile a questo — simile, dico, nella carta, nei caratteri, nelle dimensioni, nella copertina — ed io dovrei dedicarne uno a te. No, caro Vannicola. Scu­sami e perdonami col tuo generoso cuore di bene­dettino alcoolista, ma ciò non è possibile : è troppo al disopra della mia forza, che pure è grande. Io non posso infrangere per nessuno — neppure per te — una promessa fatta solennemente a me stesso. Se l’avessi fatta soltanto agli altri….

Tu sai quanto il cinico sottoscritto ti vuol bene, e non da ora, ma da parecchi anni, da quando tu, an­cor fresco delle glorie milanesi di Pierrot, venisti a Firenze come un pellegrino amoroso del Cavalcanti e nascondesti vicino al Poggio Imperiale il doppio mi­stero del tuo amore e della tua anima. Io ricordo sem­pre con eguale voracità la lettura del De profundis e il vino vecchio della tua tavola ; il tuo appassionato violino e l’odoroso the coi dolciumi di Giacosa. Tu che sei uomo di spirito e di fede e perciò pronto a trovare Iddio nella cattedrale e nella bettola in Bee­thoven e nella birra chiara, non ti arrabbierai di certo per questi accoppiamenti. Tanto più che in cima ai miei ricordi, proprio nel mezzo più luminoso delle mie memorie, te solo mi appari, te solo col romantico violino appoggiato al tuo collo. Non ho mai visto in vita mia una trasfigurazione cosi completa e improvvisa d’un uomo. Non ho mai visto un volto così acceso, così assorto, così divinamente amoroso e do­loroso come il tuo, mentre l’arco tenuto dalla tua mano di signore strappava alle corde e al legno quei sentimentali gemiti d’inutile nostalgia e d’inappagabile desiderio che mi commuovono anche oggi, al solo ricordo.

Caro Vannicola, io non sono nè una donna nè un pederasta e puoi accettare senza rossore le mie parole : in quei momenti tu eri bellissimo. Tutto perso e in­fiammato sotto il rosseggiare della fiamma elettrica ; tutto sperduto e rapito in quei singulti che sembravano uscire da un petto di carne e non da una cassa di le­gno ; cogli occhi socchiusi e le mani irrequiete, solo, divinamente solo in mezzo a noi tutti, in mezzo al silenzio di noi tutti, tu eri, ti assicuro, bellissimo. Non foss’altro che per quelle ore invernali di Via Monte-bello dovrei tessere intorno alla tua canizie giovanile una corona di gratitudine.

E invece…. E invece preferisco sembrarti ingrato e sconoscente e non ti dedico questo libro. E ti prego, anzi, di non considerare questa lettera come una de­dica travestita.

Io voglio che nei miei libri non vi sia altro nome e cognome che quello di

Giovanni Papini.

 

Una recensione sincera…

hermes Vannicola

Per l’”Oblio”,  del M.° Brogi

da Hermes, Febbraio 1904, vol. 1, fasc. II. pag. 106

II giorno stesso d’una festa non si offre che dei fiori. Il domani è permesso offrire delle riflessioni. La festa che si fa per l’opera nuova di un giovine di vo­lontà e d’ingegno è cosa lieta, ma essa è anche, e sopratutto, cosa grave. Il primo giorno è giorno di letizia; il domani è giorno di gravità. Il primo giorno la letizia guarda l’opera così, come è; il domani la gravità contempla l’opera così, come non è, ma come dovrebbe essere.

Io ho già guardato l’ Oblio. Continua a leggere

Ho fatto l’antiTetanica

Un chilo e duecentocinquanta grammi di carta giallina  cucita con filo refe ed avvolta in brossura con sovracoperta funerea … così  sono state impacchettate per i posteri la vita e le opere di un cesellatore della parola poco conosciuto vissuto nei primi anni del Novecento, Giuseppe Vannicola, quando l’Italia si sforzava di essere fucina di creazione in tutti i campi e non come è ridotta ora, fetida topaia di furbi ed opportunisti, sempre pronti a farsi un selfie salendo con i piedi sul corpo dell’altro. Con 35 euro, quei buffi foglietti colorati che dal 2002 muovono le nostre vite nel luna park europeo, mi sono portato a casa questo mattoncino, l’ho letto e riletto, soprattutto le prime 70 pagine in leziosa numerazione romana e in plurale maiestatis denominate “saggio introduttivo” ( di saggio c’è poco, di “introduttivo” mooolto …) ; ero tentato dal dissezionare, smembrare il corpus cartaceo come faccio con i quotidiani ( appena compro il giornale lo strappo nella costa per poterlo leggere meglio in metropolitana ) per poter stendere a terra i vari capitoli e disinnescare il timore reverenziale che 600 pagine incutono e così scopri che le 226 pagine di Sonata Patetica dal sapore mitteleuropeo sono diventate 100 paginette da “contratto di governo” tutte precisine, insipide ed inodore, roba da stalker; scopri che una chicca editoriale come Corde della grande lira, nato come omaggio alla compagna Olga, delicato e profondo nell’uso e nel significato è diventato interessante come una biopsia istologica e raggiungi “l’abominio della desolazione” quando arrivi a Elsa l’abbandonata, una pièce teatrale mai rappresentata che se la sfogliate seppur virtualmente sul sito dedicato a Vannicola, come uscì su La Riviera Ligure, vi trasmette un po’ di interesse, un po’ di vita mentre nel mattoncino diventa mera e pura ispezione microbiologica. Faccio un esempio, trascrivendo qualche riga tratta da Tetano Metafisico e dalla biografia che pubblicò Ferdinando Gerra nel 1978 :

(…) Corde della grande Lira è un insieme di tredici concetti espressi in stile aforistico stampati ciascuno in una pagina a sé, solo recto, in un piccolo libro formato album (12,5×20) costituito da trentadue pagine non numerate. In copertina muta è riprodotta unicamente un’orchidea … (tratto da Tetano Metafisico)

(…) il Vannicola scrisse una serie di tredici brevissimi pensieri, pubblicandoli poi con il titolo Corde della grande lira in un elegante fascicoletto formato album (cm. 12,5 x 20), con copertina muta su cui spicca il disegno di un’orchidea. (tratto dalla biografia di F. Gerra)

Ma, la vedete la differenza ??? e il cosiddetto “saggio introduttivo” inizia con queste parole che mi hanno fatto consumare tutto il Maalox che avevo in casa : “(…) Non è ancora ben noto cosa abbia scritto, né quale sia stata la sua vita.” Perché devo assistere impassibile a questo accoltellamento verbale ??? Giuseppe Vannicola non merita questo petulante interessamento peloso, lui scriveva per illuminare la sua vita difficile di colori, di speranza, di vino e assenzio, eeeh cosa sarà mai … gli astemi non hanno fatto la storia della letteratura, il Futurismo è nato da una sbornia e da una uscita di strada in auto, il più grande “musicista” del Novecento italiano strappava le pagine dei suoi Canti Orfici a chi non le poteva capire, l’Uomo Inimitabile volava su Vienna a seminar volantini, Guido Morselli sappiamo bene come è finito per non essere pubblicato, Lorenzo Calogero morì di fame sul suo letto, in Calabria, dopo aver scritto sulla terra delle poesie splendide e noi non dobbiamo incazzarci per questo superficialismo editoriale ??? Per dirla con il rev. M.L.King,  I have a dream … sogno di vedere, un giorno, ristampati in anastatica, i lavori di Vannicola “ come erano e dove erano”, come nei titoli di coda di un terremoto. Non so cosa mi trattenga dal passare nel tritadocumenti l’altezzoso mattoncino … veramente lo so, sono quei buffi foglietti colorati che ho speso, perché costano fatica, ultimamente anche molto sudore, e non è giusto nei nostri confronti, sprecarli.

Silvano Tognacci

Diego Poli su Vannicola

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Il tema dell'”abisso” nel paradigma futurista di Giuseppe Vannicola

Intervento del Prof. Poli nell’ambito del Convegno sul Futurismo che si è tenuto recentemente a Padova.

Prof. Diego Poli

L’arte, diventata lo strumento di rivelazione dello spettacolo della vita, si mostra ansiosa di collocarsi nella dimensione metafisica dell’universale, aprendo lo spazio alla reinterpretazione delle manifestazioni della cultura europea alla luce degli adattamenti prodottisi in America, così come ai vari esotismi ed etnicismi offerti dal suolo africano e dalle terre estreme dell’Asia e dell’emisfero australe. In Italia Giovanni Papini rappresenta in maniera lucida il paradigma del nuovo corso; egli, pur cogliendo la profondità di senso da cui prende l’avvio la crisi della storia e della cultura del Novecento, non riesce tuttavia a nascondere il timore per il nuovo, nonostante abbia indossato gli abiti dell’entusiasta.

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